A distanza di poco tempo dalla pronuncia dell’Ufficio dei Marchi Europei, che ha (correttamente) posto dei limiti alla tutela indiscriminata del noto tartan di Burberry (e di cui ha dato notizia il numero di aprile di questa Newsletter), la sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza 12640/2023) – mettendo definitivo termine ad un contenzioso dalle alterne vicende presso le Corti di merito – si è pronunciata invece in senso opposto ed ha sancito – anche sul fronte penale – la tutela ultramerceologica dei noti marchi “nastro verde-rosso-verde” di Gucci e “Burberry Check“, quest’ultimo, in quanto depositato in bianco e nero, da intendersi protetto in qualunque colore o combinazione di colori.
In buona sostanza, i Supremi Giudici hanno stabilito, in sede penale ( e quindi in un ambito particolarmente delicato, anche per l’impatto sociale che gli è proprio), che tali segni, in quanto annoverabili fra i marchi “celebri” godono di una tutela che “deve essere estesa a tutti i settori merceologici, anche completamente estranei all’interesse del brand, ove si rischi, secondo il giudizio del consumatore medio, la confondibilità dell’attribuzione del prodotto riproduttivo del marchio, del disegno o del modello originale, forti perché ampiamente notori”.
Questa presa di posizione (tecnicamente non del tutto ineccepibile, come non di rado accade alle decisioni penali, in materia di proprietà industriale), pare invero eccessiva, innanzitutto perché va oltre persino alla giurisprudenza delle Sezioni Imprese (nonché a quella della CGUE) in materia di tutela del marchio di rinomanza, la quale, basandosi sul dettato dell’art. 20.1(c) del Codice delle Proprietà Industriale (cpi) e del corrispondente art. 9.2 (c) del Regolamento sui Marchi Europei (RMUE) ha ripetutamente ribadito che la tutela ultramerceologica del marchio rinomato è subordinata all’accertamento del fatto che l’uso del segno successivo (a) consenta al relativo titolare di trarre indebito vantaggio, senza giustificato motivo, dalla notorietà del marchio celebre, oppure (b) arrechi pregiudizio a quest’ultimo.
Sulla base di tale normativa, le Corti specializzate hanno negato che possa ipotizzarsi una lesione del marchio celebre, allorquando il segno ipoteticamente in conflitto (in alcuni casi anche del tutto identico), sia usato in settori merceologici “completamente estranei all’interesse del brand”.
Inoltre, in tema di modelli, sia il vigente CPI che le norme del corrispondente Regolamento Europeo, per giudicare sia della validità che della contraffazione del titolo fanno riferimento alla figura “dell’utilizzatore informato” e non a quella – presa a parametro dalla Cassazione penale – “del consumatore medio”, che è invece nozione ben diversa e di più basso livello.
Sia dunque come sia, la citata decisione dei Supremi Giudici impone agli operatori economici di porre estrema attenzione nell’uso, sui propri prodotti (di qualunque genere), di marchi e segni distintivi che possano risultare simili ad un segno da considerarsi “celebre” o di “rinomanza” per non rischiare di essere coinvolti in giudizi (non solo civili ma anche id carattere penale) per asserita contraffazione. In caso di dubbi, sarà sempre buona norma chiedere il parere del proprio consulente specializzato.