La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), in un recente caso (Louboutin v. Amazon), ha fatto chiarezza in merito alla responsabilità dei gestori di marketplace online per la pubblicazione di annunci pubblicitari e la distribuzione di prodotti recanti un segno contraffatto anche se i suddetti annunci e prodotti sono offerti sulla piattaforma da venditori terzi. Infatti, con l’espansione dell’e-commerce i marchi sono sempre più esposti al fenomeno della contraffazione, che può essere di non facile repressione: spesso, infatti, il titolare del marchio contraffatto non è in grado di individuare il diretto responsabile.
Christian Louboutin, famoso stilista francese i cui prodotti più iconici sono le notissime scarpe da donna con il tacco alto e la suola rossa, ha quindi intentato due cause contro Amazon – in Lussemburgo e in Belgio – sostenendo che quest’ultimo aveva violato il suo marchio pubblicizzando scarpe contraffatte, vendute da terzi, sulla piattaforma online. Amazon, per difendersi, ha invece invocato due precedenti della CGUE (L’Oreal v. eBay; Coty v. Amazon,) che negavano la responsabilità degli intermediari online per la violazione del marchio in relazione a prodotti offerti da terzi.
Le corti nazionali adite da Louboutin nei sopracitati procedimenti avevano quindi rimesso la questione alla CGUE.
Quest’ultima, ha affermato che Amazon può essere ritenuta responsabile per la pubblicità di scarpe Louboutin contraffatte sulla propria piattaforma – così discostandosi sensibilmente dalla sua stessa precedente giurisprudenza. In proposito, infatti, la CGUE è giunta a tale conclusione partendo dall’assunto che Amazon, essendo una piattaforma “ibrida” che integra tanto un marketplace online quanto la vendita diretta di prodotti – contrariamente ad eBay (che si limita a gestire un marketplace online pubblicando solo inserzioni di venditori terzi senza svolgere alcuna attività di vendita di prodotti) – non rende possibile all’utente medio comprendere se i prodotti in violazione del marchio sono commercializzati direttamente dalla stessa Amazon o da un venditore terzo.
In particolare, la CGUE ha osservato che laddove Amazon utilizza “una modalità uniforme di presentazione delle offerte pubblicate sul proprio sito internet, visualizzando contestualmente gli annunci relativi ai prodotti che vende in nome e per proprio conto e quelli relativi ai prodotti offerti da venditori terzi su detto marketplace, che espone su tutti questi annunci il proprio rinomato logo distributore e che offre a venditori terzi, nell’ambito della commercializzazione di prodotti contrassegnati dal segno in questione, servizi aggiuntivi consistenti in particolare nel deposito e nella spedizione di tali prodotti”, rende difficile per i consumatori distinguere l’origine di ogni annuncio e la provenienza delle merci contraffatte.
Tale pronuncia della CGUE – che fissa solo dei principi generali – non costituisce di per sé una condanna di Amazon; la decisione finale sarà infatti assunta dai tribunali nazionali in Belgio e Lussemburgo.
In ogni caso questa pronuncia pregiudiziale, da un lato rende gli operatori dei mercati online che utilizzano un modello ibrido (come Amazon) giustamente più aggredibili in caso di vendita di prodotti contraffatti sui loro siti; dall’ altro facilita la tutela dei proprietari di marchi, che potranno agire per contraffazione contro grandi operatori (come Amazon, appunto), invece che essere obbligati ad individuare ed attaccare i singoli contraffattori.